SE VOGLIAMO PARLARE DI RAZZISMO E DI DITTATURE, PARLIAMONE PURE.

Scelgo di intervenire sull’oggetto di un dibattito sviluppatosi nei giorni scorsi. E più precisamente sulla questione sorta intorno alla complessa fisionomia dell’attuale quadro politico nazionale ed internazionale. Ho letto la preoccupazione di Mario Segni per la fine della vecchia democrazia liberale “a favore di sistemi profondamente intrisi di intolleranza e forse di razzismo” ed ho ascoltato Beppe Pisanu definire l’attuale governo il frutto di “una positiva spinta utopica non sostenuta però da una adeguata capacità di analisi culturale”.

Tanti i temi trattati: la crisi delle istituzioni, le nuove frontiere della globalizzazione, l’arretramento dello Stato sociale, l’efficacia delle politiche di gestione dei flussi migratori. Ottimi spunti per un’ideale passeggiata lungo le rive inascoltate dei 22 milioni di cittadini italiani che nelle urne avevano gridato basta ad una politica fintamente buonista ed ostinatamente lontana.

Ma così non è stato.

Dalla discussione non è emerso un benché minimo cenno di revisione critica del passato ed, in definitiva, il tutto è andato a condensarsi nella irriducibile oleografia del “ Salvini razzista” e del M5S che vuole “portare l’Italia fuori dall’Europa”.

Francamente, troppo poco.

Approfitto allora di queste righe non tanto per ricordare che l’esistenza di un contratto di governo sottoscritto dai due leaders di maggioranza esclude ogni tipo di iniziativa personale che stia fuori dai temi politici dell’accordo, quanto per unirmi anche io all’allarme sui possibili pericoli per la nostra democrazia.
Sono di pochi giorni fa le dichiarazioni del PM di Genova Francesco Cozzi, titolare dell’inchiesta sul crollo del ponte Morandi, che al Corriere della Sera ha parlato di “soggetto pubblico espropriato dei suoi poteri”.

É lo Stato che si volta e si nasconde. È lo Stato che lascia fare. È lo Stato che abdica e diventa invisibile ed insieme ad esso diventano invisibili anche le persone. Perché sono più di 30mila in Puglia gli stranieri che anche questa estate hanno partecipato alla raccolta di milioni di tonnellate di pomodori. Difficile quantificare il loro numero esatto, considerato che nessuno ha mai fatto un vero censimento di questi “nuovi schiavi” sconosciuti alle autorità locali.

Ed a proposito di lavoro, come leggere senza preoccupazione i dati ISTAT che segnalano, in un anno, 440 mila contratti a termine su 457 mila assunzioni lavorative?

Ecco allora che anche il più sprovveduto degli osservatori capisce che c’è qualcosa che non funziona in questo paese. Qualcosa di molto più allarmante rispetto all’esternazione di questo o di quel ministro, qualcosa che ha finito per svuotare l’essenza stessa delle libertà di autodeterminazione di un individuo.

Il dispotismo in Italia esiste ed esiste da tempo. Ma per esercitare la propria autorità esso non ha avuto bisogno di una squadra fascista che bussasse alla porta alle quattro del mattino. Il dispotismo in Italia ha agito in forma elegante, silenziosa, compiacente, benevola. Prodotto adulterato di una politica che ha consegnato il potere ad un gruppo ristretto di oligarchie economiche in grado di influire in maniera determinante sulla vita collettiva senza passare attraverso il controllo delle istituzioni democratiche.

Questo è, dunque, il fronte della sfida che attende il nuovo governo: 1) restituire allo Stato sovrano ed agli organismi internazionali il potere di controllo sulle oligarchie economiche di modo che non possano più agire indisturbate nel perseguire i propri interessi particolari; 2) sottrarre ai potentati finanziari il dominio dei mass-media perché sia favorita la crescita di una opinione pubblica vigile, informata e pluralista; 3) attuare una energica politica di contrasto alle tante diseguaglianze sociali che mettono i non tutelati, i poveri, i migranti, i giovani disoccupati, in una condizione che non è di cittadini ma di veri e propri paria di nuova generazione.

A Mario Segni dico che questo è il razzismo che dobbiamo combattere. A Beppe Pisanu rispondo invece che sì, voler cambiare questo stato di cose potrebbe sembrare un’utopia. Ma perché non provarci?

 

Ettore Licheri
Movimento 5 Stelle
Presidente della Commissione Affari Europei Senato

Da Moggi a Zola e Buffon: Licheri si racconta.

Il neo senatore si è dimesso dalla Procura federale della Figc di Roberto Muretto.

13 marzo 2018

SASSARI. Dopo vent’anni, ha consegnato la lettera di dimissioni dalla Procura federale della Figc. Ettore Licheri ieri ha lasciato il mondo dello sport per una nuova esperienza: la politica. È stato eletto senatore nelle liste del M5S. Dai campi di calcio agli scranni di Palazzo Madama per portare la sua esperienza maturata in più ambiti professionali.

C’è una partita che ricorda in modo particolare?

«Cagliari-Salernitana al Sant’Elia. Abeijon viene espulso perchè si ribella agli insulti rivolti a sua figlia da Giacomo Tedesco. Langella vendica il compagno e gli spara un pugno in faccia. Quella è stata la prima volta che la giustizia sportiva ha riconosciuto la provocazione, così Langella ha potuto evitare una lunga squalifica».

Chissà quanti amici ha nel mondo del calcio, forse anche dei nemici.

«Ho conosciuto tante persone per bene e altre con le quali non prenderei nemmeno un caffè. Cito Simone Inzaghi che ho conosciuto da giocatore, mi ha fatto piacere incontrarlo da allenatore nella mia ultima partita a bordo campo. Ho avuto un ottimo rapporto con Spalletti, col quale ci incontravamo spesso d’estate perchè lui frequentava Palau e i nostri figli si conoscevano bene».

Lei ha seguito tante inchieste. Ricorda un particolare?

«La sofferenza di Pippo Carobbio quando ha deciso di collaborare con la giustizia sportiva. Il giorno del processo Antonio Conte si lamentò parlando di un rapporto confidenziale tra il calciatore e un componente della Procura. Si riferiva a me. Parole dette senza conoscere la realtà».

Come è cominciata la sua avventura alla Procura?

«Grazie a Carlo Porceddu che allora era il procuratore federale. Gli avevo espresso il desiderio di mettere al servizio dello sport la mia preparazione in materia giuridica e lui mi fece entrare nell’Ufficio inchieste. Da Carlo ho imparato cosa vuol dire avere la schiena dritta. Riceveva tante pressioni, non si è mai piegato».

Il calciatore più simpatico?

«Buffon. Per la generosità e l’attenzione verso i bambini».

Ci racconta un aneddoto dei tanti interrogatori fatti?

«Quello di un allenatore allora sconosciuto, chiamato in causa per una omessa denuncia. Ricordo che si presentò senza un avvocato e spiegò con serenità le sue ragioni. Alla prima udienza chiese di parlare davanti alla commissione Sport e convinse i giudici della sua estraneità ai fatti. Era Maurizio Sarri, ora uno dei tecnici più bravi in Europa».

Lei ha interrogato più volte Luciano Moggi. Era davvero così arrogante?

«Al contrario, era affabile, riusciva a entrare in empatia con tutti. Ricordo di aver mangiato insieme a lui il porcetto cucinato da signor Matteo, custode del Sant’Elia. Quando è scoppiata Calciopoli devo dire che Moggi, a modo suo, collaborava. Il taciturno era Antonio Giraudo».

Definisca con un aggettivo alcuni calciatori. Cominciamo da Gianluigi Buffon.

«Motivatore, sincero».

Gianfranco Zola?

«L’eleganza e la modestia. Solo per lui gli arbitri facevano un’eccezione al protocollo chiedendogli la maglietta».

Francesco Totti?

«Generoso. Posso testimoniare delle tante volte che è intervenuto per aiutare suoi colleghi in difficoltà».

Paolo Maldini?

«Freddo, gioviale ma sempre molto contenuto».

Alessandro Del Piero?

«Alla mano. Ricordo che ero a Torino per una gara della Juventus e un bambino sassarese che non stava bene di salute, voleva la sua maglia. Gli ho raccontato tutto e a fine partita stavo andando via dimenticandomi di prendere la maglietta. È stato lui a portarmela e c’era anche la dedica».

Un giocatore del Cagliari col quale ha conservato un rapporto di amicizia?

«Daniele Conti. Mio padre, tifosissimo del Cagliari, spesso mi accompagnava alle partite. Se Daniele veniva espulso a fine partita gli faceva la ramanzina e lui, pazientemente, lo ascoltava. Io provavo imbarazzo, ma Conti sapeva che quelle erano le parole di un padre».

Altri sardi a bordo campo?

«Salvatore Casula di Cagliari, farà una bella carriera».

Le piace il Var?

«Sono favorevole. I dati statici dicono che molti errori sono stati corretti. E poi a me piace la suspence che crea».

Come è cambiato il calcio in questi vent’anni?

«C’è una maggiore consapevolezza politica degli allenatori e degli atleti. E questo grazie a uomini come Albertini, Tommasi e Ulivieri. L’auspicio è che in futuro sia più equilibrato il rapporto sport-politica».

Il calcio sardo non se la passa benissimo. Ha qualche suggerimento da dare?

«Qui si vive un momento delicato, anche se ora abbiamo tre squadre tra i professionisti. La nostra economia è soffocata dalla crisi. Questo ha favorito l’ingresso nelle società di personaggi dal passato oscuro che spesso hanno fatto soltanto danni. La Gallura è l’eccezione, progetti che vanno incoraggiati e sostenuti».

Sport e politica non vanno proprio d’accordo, perchè ha deciso di fare questo salto?

«Ho il desiderio di dare alla politica un aspetto più sorridente. Domenica un dirigente del Cagliari mi ha detto che era stupito che tutti mi volessero bene nonostante nella mia carriera abbia fatto infliggere più di 100 mila euro di multa alla società. Ecco, vorrei che questo succedesse anche in politica. Giulini si è raccomandato, dicendomi di sostenere lo sport anche da senatore. È questa la mia missione».

 

Fonte La Nuova Sardegna