“Siamo tutti sbirri!” Ha esclamato Luigi Ciotti, poche settimane fa a Locri, dal palco della manifestazione per la giornata della memoria contro le mafie. Così replicando alla scritta “Don Ciotti sbirro” comparsa nella notte sui muri della cittadina calabrese.
Ad una vile strisciata di vernice sul muro il prete fondatore di “Libera” ha risposto con un altra delle sue prodigiose sfide sociali: capovolgere il significato sprezzante della parola “sbirro” e trasformarla in una parola positiva, in un sinonimo di persona retta, di uomo giusto, di cittadino che vive nel rispetto della legalità.
Com’è noto, il significato semantico delle parole muta con il fluire della Storia e con la quotidiana dialettica della vita. Nulla impedisce, dunque, che il sogno di Ciotti si realizzi e che la parola sbirro si affranchi dal recinto dell’insulto per diventare simbolo di uno stile di vita irreprensibile.
Ma perché ciò avvenga, siamo davvero disposti a vivere da sbirri?
Sia chiaro che essere sbirri non è affatto facile. Anzi, usare il valore della legalità come bussola per le proprie scelte può rivelarsi addirittura svantaggioso. Significherebbe respingere le raccomandazioni, rifiutare i baratti elettorali e resistere ai miraggi dei guadagni facili e veloci. Ma non solo. Vivere da sbirri è impegnativo anche nei piccoli doveri della quotidianità come, ad esempio, il dovere di differenziare l’umido dalla plastica, il dovere di prendersi cura dell’aiuola sotto casa e di non posteggiare negli stalli per disabili.
Ed allora, siamo sufficientemente maturi per meritarci il titolo onorifico di sbirri e mettere il senso di giustizia al centro della nostra vita di cittadini?
No, non lo siamo.
Il Procuratore Regionale della Corte dei Conti di Cagliari in occasione dell’apertura del corrente anno giudiziario, ha parlato di “una persistente tendenza a tollerare quelle deviazioni del sistema, fatte di legami, di reti di connivenze, di commistioni tra pubblico e privato, di fedeltà in cambio di favori, che costituiscono il substrato su cui si regge la manifestazione di ‘potere'”.
Parole sinistramente affini a quelle che sono solite provenire dagli avamposti giudiziari nei territori di mafia. Parole pesanti come pietre che avrebbero dovuto promuovere un severo processo di riflessione tra tutte le componenti della società civile isolana. Ed invece, il richiamo del magistrato contabile ad un comportamento “maggiormente improntato ai valori etici essenziali” si è dissolto nell’indifferenza. L’irrisolta questione morale che tanto doleva ad Enrico Berlinguer continua a rappresentare, in Sardegna come altrove, un tema dal quale rifuggire.
La lotta per la rimozione degli ostacoli sociali di cui parla l’articolo 3 della nostra Costituzione non può essere affidata esclusivamente allo Stato, ma deve essere portata avanti da tutti noi. Tutti i giorni, tutto il giorno. Nella quotidiana consapevolezza, come scriveva Oriana Fallaci nel suo libro “Un uomo”, che “non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, ma lo si fa per noi stessi, per principio, per la nostra dignità”.